Acqua Fragile: Acqua fragile (1973)

acqua fragile acqua fragileMA... CHE CI FA BERNARDO LANZETTI A "THE VOICE SENIOR 2024 "?

"Un gruppo di ottimi musicisti che purtroppo non ha ancora raggiunto un'espressione autonoma o perlomeno, discretamente originale".
Così nel 1975, "Il libro bianco sul Pop in Italia" descriveva gli Acqua Fragile. Considerando la severità ideologica del libro e i giudizi ben peggiori che riservò ad altre bands, questa valutazione poteva addirittura suonare come un complimento.

La storia degli AF ebbe inizio a Parma intorno al 1971, quando i tre superstiti del gruppo beat "Gli Immortali" (Bernardo Lanzetti, Gino Campanini e Pier Emilio Canavera), rimpolparono la formazione con l'ex "Moschettieri" Franz Dondi e il tastierista Maurizio Mori per sostenere una serie di concerti con il loro nome originale.
Notati dalla Premiata Forneria Marconi per la loro abilità esecutiva, i cinque vennero dapprima introdotti alla corte del potentissimo manager Franco Mamone e successivamente presentati a Lucio Battisti che li scritturò per la sua discografica "Numero Uno".
Nel frattempo, il quintetto emiliano non solo cambiò il nome passando dall'anacronistico "Immortali" al il più moderno "Acqua Fragile" ma, sempre grazie a Mamone, riuscì a conquistare un'enorme visibilità esibendosi nientemeno che a fianco di Soft Machine, Alexis Korner, Curved Air, Uriah Heep e Gentle Giant.

acqua fragile acqua fragile 01A coronare infine un battesimo così prestigioso, nel 1973 fece capolino nei negozi il loro primo ed omonimo 33 giri.
Costituito da sette pezzi interamente cantati in Inglese, co-prodotto da Claudio Fabi e presentato con un'eccellente veste grafica (copertina apribile in forma di poster 60x60 e busta interna con i testi tradotti in italiano), "Acqua Fragile" venne subito notato dalla critica ufficiale (Ciao 2001) che non mancò di esaltarne le sue indubbie qualità: ineccepibile tecnica musicale, ritmica possente, ottima voce, continuità e fluidità nella composizione.

acqua fragile acqua fragile 02C'era però un altro lato della critica (quella Controculturale) che, pur riconoscendo all'album le sue evidenti qualità strumentali, aveva sollevato non poche perplessità sia sull'ingerenza della lingua Inglese, sia sull'eccessivo ricalco di schemi stilistici già abbondantemente sfruttati dai Genesis o dai Gentle Giant.
Va da sé che, essendo il mercato discografico giovanile estremamente dipendente dagli umori del "movimento", il primo lavoro degli Acqua Fragile non venne completamente accettato: Lanzetti "tirava troppo per la giacchetta" Peter Gabriel e i Family e comunque, la Numero Uno di Battisti non era certo il miglior referente per le soggettività avanguardiste.

Certo è che, ideologie a parte, tra il disco dei cinque emiliani e certi lavori d'oltremanica, le assonanze non erano davvero poche.
Ad esempio, sin già dal primo brano "Morning Comes" ci si accorge che tutto è speculare ai Genesis: ci sono le grandi aperture orchestrali, i crescendo di Banks, le sincopi di Collins, i cori di "Selling England" e la chiusura di "Musical Box".
acqua fragile acqua fragile 03Persino l'effettistica sulla voce richiama quella di Peter Gabriel, cosa che valse a Lanzetti un pur rispettoso accostamento col suo omologo inglese.
A peggiorare la situazione, nei due brani successvi ("Comic Strips" e "Science fiction Suite"), le citazioni si estendevano anche ai Gentle Giant ai CSN&Y di "Judy Blue Eyes" e ai Velvet Underground ("All tomorrows parties"), rendendo l'album quasi parodistico.
Purtroppo, anche volendo trovare negli altri rimanenti quattro brani una traccia di personalità autonoma, non si incontravano che ulteriori richiami al prog inglese con appena qualche barlume di mediterraneità ("Three hands man").
Al di la di qualche doveroso sussulto critico quindi, il debutto degli Acqua Fragile non decollò.
Il loro album fu di fatto la dimostrazione lampante che la dedizione al ricalco non paga, pur se affiancata da una muscolare potenza esecutiva.
Fortunatamente, le idee migliori sarebbero arrivate più tardi.

Dire Straits - Vigorelli, Milano 29-6-1981

Dire Straits Vigorelli Milano 1981
DIRE STRAITS, Milano 29-6-1981
 Serie: VALS DEL RECUERDO  (I CONCERTI DI J.J. JOHN)


Merda! Se ci ripenso sembra ieri!

E invece sono passati ben 43 lunghi anni da quel caldo pomeriggio di giugno, in cui, alle quattro e mezza circa, io e il mio amico Marco (oggi stimatissimo dirigente) varcammo felici la soglia del Velodromo Vigorelli di Milano per assistere al concerto dei Dire Straits. Ora prevista: 21,30 – 22.

Ciò significa che, siccome eravamo appostati ai cancelli da almeno due ore, e ne mancavano sei all’evento, l'attesa totale ammontò a ben otto ore tonde tonde. Cose che fai solo a diciott'anni.

Per la cronaca, quel concerto era la terza data italiana del massacrante On Location world tour (115 concerti in tutto, incluse le apparizioni a Top Of The Pops e al Festival di Sanremo), cominciato a Vancouver il 22 ottobre 1980, e la sestultima prima della sua chiusura alla Hall Omnisports di Lussemburgo il 6 luglio 1981. 

Mister Fantasy 1981
29.12.1981 -  MISTER FANTASY:
CARLO MASSARINI intervista MARK KNOPFLER

Love Over Gold e Brothers in Arms dovevano ancora arrivare, quindi, chi presenziò quella sera, ascoltò perlopiù brani dai primi tre album: Dire Straits del 1978 che fece il botto con Sultans of Swing, il successivo Communiqué da cui uscirono Lady Writer e Once Upon a Time in the West, e l’iper-osannato Making Movies (quello di Romeo and Juliet e Tunnel of Love) che convinse me e il Marco ad acquistare istantaneamente i biglietti. Probabilmente - sostiene lui - da Transex, un negozio di dischi dietro il Duomo, all’epoca il rifugio privilegiato degli Heavy Metal Kids milanesi.

E chissà poi chi ci avvisò del concerto. Internet non c’era. Ci si affidava ai manifesti, alle radio libere, alle riviste specializzate e soprattutto al passaparola, e i biglietti, appunto, te li andavi a comprare dove c’erano. Non li stampavi dal computer, e nessuno te li portava a casa col corriere. 

Fummo comunque tra i primi ad averli, il concerto era garantito, e pianificammo tutto al meglio.
Parole d'ordine "tre quattro panozzi a testa, altrettante bocce d'acqua, e birra a profusione. Si va prestissimo, e appena aprono ci scaraventiamo dentro, per stare davanti". E così fu.

Dire Straits Vigorelli Milano 1981
VIGORELLI 1981 - KNOPFLER e LINDES

Peccato che la nostra stessa idea la ebbero almeno altre due-tremila persone, cosicchè all’entrata si creò un ingorgo davvero spaventoso. Qualcuno si fece pure male, ma alla fine arrivammo non proprio davanti al palco ma quasi. E comunque in pieno centro per goderci la stereofonia e tutto il resto.

Lo stage intendiamoci, era immenso ma essenziale. Niente fumi, botti,  scenografie digitali, congegni arcani, maiali volanti o quant’altro. Giusto le due torri laterali dell’amplificazione, gli spot, le americane in alto, e per il resto, tutto concentrato sulla band e sulla musica.

Non ricordo precisamente cosa facemmo durante l’attesa, ma so che ad un certo punto non riuscimmo più a stare sdraiati. E quando verso le nove il parterre fu bello pieno, arrivarono i Fisher Z, una band non particolarmente arrapante del Berkshire (GB), inizialmente votata al punk, ma ai tempi fresca del suo album più pop: Red Skies Over Paradise

Poco più che dignitosi, ebbero comunque il merito di risvegliarci dopo sei ore d’attesa (del resto è a questo che servono i gruppi spalla, no?), e dopo una mezz'oretta ancora, ecco finalmente i Dire Straits. Ad accoglierli, trentamila persone.

Giù le luci, tutti i fari puntati sul palco, “Good evening ladies and gentlemen. Welcome to the Vigorelli!”, e vai con Mark Knopfler che in giacca rossa, maglietta bianca e fascia d’ordinanza, attacca Once Upon a Time in the West, limpido come Hank Marvin e sfacciatamente strappato ancor più del Marc Bolan di Ride a White Swan. Mai si era sentita una band che si appoggiasse solo su quel sound, e naturalmente, nessuno l’aveva mai vista dal vivo. 

Dire Straits Sanremo 1981
DIRE STRAITS A SANREMO 1981
Tre dita di intelligenza”, disse di Knopfler qualche arguto critico. Forse uno del Ciao 2001.
Sound chiaro e portentoso, tempo splendido, entusiasmo a mille. Esattamente quel che ci aspettavamo e che volevamo sentire. Poi la mia memoria si perde davanti al grande palco, e a questo punto, chiedo aiuto a chi c’era.

Due cose però ricordo molto bene.
La prima fu l’incredibile vitalità di una band che aveva pur sempre - e da oltre otto mesi - centodieci concerti sul groppone a ritmo di quasi uno ogni due giorni. “Una cosa normalissima”, direte giustamente voi. Eppure a me stupì quanto il sound fosse straordinariamente fluido e compatto. Nessuna flessione, nessuna incertezza.

Ma ciò che rimase davvero nel mio cuore, e che mi sembra di rivedere ancora adesso, fu quando, sulle prime note di Romeo and Juliet, un fascio di luce bianca centò in pieno la dobro metallizzata di Knopler, irradiando nel cielo, centinaia di raggi luminosi.

Una minuzia d'altri tempi? Sarò io che forse sono troppo romantico? Forse. Ma erano magie di un tempo in cui (Pink Floyd a parte), le grandi scenografie non erano ancora patrimonio di tutti, anzi. E le grandi emozioni del rock si coglievano dai particolari. A volte anche da una nota soltanto. E io me le ricordo tutte.

Che poi oggi sia meglio o sia peggio, non sta a me sindacare. Ma sono felice di aver vissuto quei tempi... e di poterveli raccontare.
A presto.

DIRE STRAITS, Velodromo Vigorelli,  Milano 29-6-1981
Mark Knopfler: vocals, lead guitar
John Illsley: bass
Hal Lindes
: guitar
Pick Withers: drums
Alan Clark: keyboards

PLAYLIST: Once Upon a Time in the West - Expresso Love - Down to the Waterline - Lions - Skateaway - Romeo and Juliet - News - Sultans of Swing - Portobello Belle - Angel of Mercy - Tunnel of Love - Telegraph Road - Where Do You Think You're Going? - Solid Rock

Blues Right Off: Our Blues Bag (1970) - Un esemplare curioso.

NEI COMMENTS CI SCRIVE CLAES CORNELIUS, CHITARRISTA DEGLI OUR BLUES BAG



 Recentemente mi è capitata sott’occhio questa copia senza copertina di Our Blues Bag dei Blues Right Off, croce e delizia di tutti i collezionisti di pop italiano. 

blues right offPurtroppo, la label presentava scritte e vistosi segni di pennarello che deprezzano l'intero Lp, ma che, se osservate attentamente, spiegherebbero ulteriormente la sua difficile reperibilità.
Vediamo perché. 

1°) Innanzitutto sono stati cancellati tutti i riferimenti alla formazione originale dei Blues Right Off e dei suoi collaboratori: il nome della band, quello di Claes Cornelius che compose tutti i brani dell’album, e quello di Ermanno Velludo che fu l’allora tecnico del suono. 

2°) Compare poi una curiosa scritta in alto a destra del lato A, “BLUES SOCIETY, 1972”, con la sola data replicata sul lato opposto “1972”. 

A questo punto verrebbe da chiedersi come mai un simile cimelio sia stato sfigurato al punto di abbatterne il valore a poche centinaia di euro, se non meno. 
Io precisamente non lo so, e anzi spero che qualcuno dei diretti interessati si faccia vivo per spiegarcelo.
Ho però elaborato una mia versione che credo possa essere attendibile

Come noto i Blues Right Off si sciolsero nel 1970 dopo la pubblicazione del loro primo Lp. 
Sappiamo che Claes Cornelius se ne tornò in Danimarca nel 1974, ma soprattutto che il bassista Giancarlo Salvador confluì, guarda caso, proprio nei Blues Society del compianto Guido Toffoletti, bluesman già attivo sulla scena veneziana dai tempi del beat.

Potrebbe dunque starci che alcune copie del prezioso Our Blues Bag siano state utilizzate nel 1972 come demo dalla Blues Society? Che so, per presentarsi al gestore di un locale, a una radio, o comunque per fungere da biglietto da visita di una band che non aveva ancora inciso nulla, ed era probabilmente allo stato embrionale? 

Ciò spiegherebbe come mai sarebbero stati cancellati tutti i riferimenti agli Our Blues Bag, perché sarebbe sparita la copertina sulla quale ovviamente c’erano tutti i credits a loro relativi, e perché comparirebbe appunto la scritta "Blues Society".

Ora, quanti esemplari come questo abbiano subito la stessa sorte, non lo so. In ogni caso si tratterebbe di una quantità copie rovinate che avvalorerebbero ancora di più quelle sane, rimaste ormai davvero poche.
Chi sa qualcosa, si faccia avanti.

Donatella Bardi: A Puddara è un vulcano (1975)

Donatella Bardi A puddara è un vulcano Donatella Bardi nasce a Torino nel 1954 da padre pittore e madre insegnante di disegno, ma diventa subito milanese d’adozione essendosi trasferita nella metropoli lombarda a soli due anni.Trascorre quindi l’adolescenza negli anni più vulcanici di una città in fermento e appena l’età glielo consente, inizia a sfruttare la sua splendida voce.
 

Collabora dapprima con Alberto Camerini, Pepè Gagliardi, Alberto Tenconi e Antonello Vitale in una band psichedelica in stile underground chiamata la “Dreaming Bus Blues Band”.
 

In seguito è la protagonista femminile della band “Il Pacco” formata sempre da Camerini (che avrà con lei anche una storia d’amore durata cinque anni), da suo fratello minore Lucio Bardi che riaffiorerà costantemente nella sua vita artistica, da Eugenio Finardi, Ricky Belloni (futuro Nuova idea) e da Lucio “Violino” Fabbri poi in forza alla scuderia della PFM. 

Onnipresente nel circuito controculturale, collabora come corista nel 1971 al disco di Claudio RocchiVolo magico n°1”, affianca Fausto Leali al festival di Sanremo 1973 e, sempre come vocalist, appare nella canzoni “Bambulè” di Camerini, “Chiaro” di Loy e Altomare, “Se si sa senza senso” dell’Equipe 84,Enorme Maria” di Simon Luca e in “Tutto subito” di Eugenio Finardi.
 

Dopo qualche tempo di permanenza in una comune siciliana per risolvere alcuni problemi personali, partecipa con “Il Pacco” alla Festa del proletariato giovanile del 1974 al Parco Lambro e questo suo attivismo (che le farà vestire anche i panni d’attrice) la porterà non solo ad interagire con figure di primissimo piano del rock progressivo quali Demetrio Statos e Paolo Tofani, ma catturerà infine l’attenzione della prestigiosa discografica Elektra che l'anno successivo pubblicherà il suo unico lavoro solista a 33 giri: “A Puddara è un vulcano”.

donatella bardi
Ad affiancare Donatella in sala d’incisione ci saranno il fratello Lucio, il padre Mario che reciterà la title track scritta dal poeta Michele Montagnese in dialetto palermitano, il fido tastierista Gianfranco “Pepè” Gagliardi, il batterista Antonello Vitale e il bassista Paolo Donnarumma, futuro collaboratore di Alberto Radius e in questo caso produttore e tecnico del suono. 

Tra gli ospiti, un certo Kevin Boullen (nome poi contratto in Bullen) alla chitarra destinato a diventare uno dei più corteggiati bassisti della scena milanese anni ’70. 
E a questo punto, eccoci alla disamina dell’album che – premettiamo - malgrado alcuni abbiano inscritto nella categoria “prog”, non ha nulla a che vedervi rappresentando semmai uno spaccato estremamente spontaneo e sincero di quel movimento giovanile che nella seconda metà degli anni ’70, si stava incamminando verso nuove, importanti e dolorose mutazioni.

Nel 1975 in effetti, tutto è più che mai in discussione: la riappropriazione degli spazi, della musica, della merce e del sistema informativo. Del ruolo della donna e della famiglia, dell'austerità e delle nuove metodologie repressive.
Qualunque collettivo cerca la propria strada da mettere al servizio di un mondo migliore e a differenza di due anni prima, si respira molta più positività, grazie anche alla forte ascesa del PCI nelle elezioni del 13 giugno.


Donatella però è proprio giovane e malgrado le frequentazioni “impegnate” non ha una coscienza politica tale da scrivere “Area 5” o ”Campagna”, ma possiede semmai un’anima sorridente e positiva che a discapito della militanza dei colleghi, trasmette molta più “gioia” che “rivoluzione” affrescando così uno dei momenti più fecondi della nostra cultura alternativa.

"Regina in quest'età" sembra quasi una canzone femminista ma senza esserlo, "Cioccolata con panna" racconta il movimento con una limpidezza talmente disarmante da non poter non essere vera, "Punto e a capo" possiede una gioia silvestre da sembrare scritta prima della grande urbanizzazione e la prima traccia "Forget" è pura poesia condensata sorprendentemente in soli sessantaquattro secondi. Una delle intro più brevi della musica italiana.

 
a puddara è un vulcanoCome un angelo lei accompagna la sua generazione che malgrado le mille difficoltà, sta crescendo, irrobustendosi e trasformandosi:
"Ogni frutto è raro, ha una storia da seguire / dall'inizio un seme che da solo può fiorire / cerca luce / il sole la porterà / cerca l'acqua / la pioggia lo bagnerà" (da “Cioccolata con panna”).
 

La storia però ci dice che il candore di Donatella si scontrerà presto con un realtà diversa in cui molti sogni dovranno presto lasciare il passo alla controrivoluzione e al riflusso.
 

Il suo “mondo in riva al mare” fatto di “paesi meravigliosi” e di “colori che raccontano la loro ora” soccomberanno alle nebbie dei lacrimogeni e ai manganelli della “legge Reale”.
Lei enterà in crisi, avrà qualche problema con "brutti miscugli di pillole" (cfr: Enzo Gentile) e alla fine si ritirerà per lungo tempo a vita familiare dando alla luce tre figli e progettando altre immaginazioni ch però non avranno modo di realizzarsi.


I sogni a 33 giri di Donatella verranno dimenticati in fretta e solo quell'immaginario fatto di “tanto lavoro di mani” e di “semi innaffiati che fioriranno” sopravviverà alla sua stessa autrice stroncata il 13 dicembre 1999 da un’emorragia celebrale ad appena 45 anni.

Soffice e conciliante al limite dell'ingenuità, la Bardi lascerà però un messaggio unico nel panorama autorale degli anni '70: "cogliere il bello della vita nel momento in cui viene vissuta". Un po' prosaico a dire il vero, ma straordinariamente sincero

Almeno per come lo trasmise lei.

TRACKLIST: -A- 1.Forget 2.Perchè dovrei credere 3.Punto e a capo 4.Regina in quest'età 5.No! 6.Oberator Mask -B- 1.A Puddara 2.Cioccolata con panna 3.Fratello Antonino 4.Aeroplano 5.Per favore non sbattete la porta

Area: un gruppo dal valore aggiunto.

rock progressivo italiano

  NEI COMMENTI: CLAES CORNELIUS dei BLUES RIGHT OFF.

Che gli Area siano stati un gruppo fondamentale per lo sviluppo del rock italiano è cosa nota: c’è una vasta bibliografia in merito tra cui ricordo lo splendido “Libro degli Area” di Domenico Coduto, c'è un passaparola che rivitalizza incessantemente le loro gesta e la loro arte, nonché un periodico fiorire di iniziative, concerti e tributi che dimostrano come la musica e il messaggio di Demetrio e compagni abbiano ancora oggi ancora un valore inestimabile. 
Già. Ma quale valore? 

Innanzitutto la conflittualità: ambasciata dai loro cinque album in studio che, tra il 73 e il 78, traghettarono il rock progressivo da espressione stilistica a strumento di comunicazione antagonista, riflettendo così sogni e rivendicazioni di un’intera generazione di militanti.  

Poi, parlerei anche di una forza comunicativa ben al di sopra della media: certamente debitrice a quella straordinaria macchina da marketing che fu Gianni Sassi, ma anche autoctona nella capacità di inventarsi sempre nuove strategie per dialogare col pubblico. Dal famoso “offertorio delle mele” alla geniale trovata del cavo elettrico tirato in mezzo al pubblico che modulava il sequencer di Paolo Tofani

stratos fariselli tofani capiozzo tavolazzi
Foto: Roberto Masotti
Infine, lo stakanovismo quasi eroico nell’esibirsi sempre, comunque e dovunque, gratis o no: per non perdere di vista neppure un ascoltatore e diffondere quel messaggio rivoluzionario del quale erano convinti tutti e cinque senza esenzione alcuna. Un costante lavoro di sperimentazioni e di contaminazioni, che Demetrio portò anche avanti per conto suo, esplorando a suo rischio e pericolo le possibilità più estreme della voce umana.

Difficilmente, credo, queste istanze furono proprie di altri gruppi degli anni Settanta, ma neppure di quelli successivi se escludiamo alcune formazioni ultraradicali dell’hardcore anni 80 o dei Centri Sociali che però, a parità di impatto, non godettero mai nè della stessa popolarità, né riuscirono (salvo rarissime eccezioni) ad uscire dalle maglie dell'underground. E questo  sia perché, nel frattempo la forza repressiva del sistema era aumentata , sia perché, in effetti, gli Area ebbero alla base una strategia operativa molto più efficace.

Di fatto, essi difesero la loro unicità intellettuale con un comportamento tanto aperto nei confronti delle masse quanto critico al limite dell’accidia nei confronti di certi loro colleghi: primi tra tutti, la Premiata Forneria Marconi. Ma in fondo, non fu una scelta sbagliata. 
Del resto, in un mondo ipercompetitivo e pericolosamente instabile come quello dei movimenti, arroccare la propria ideologia dietro un’immagine forte e impermeabile ai contraddittori, era forse l’unica soluzione possibile per mantenerla intatta. 

rock progressivo italianoE se molti dei loro proclami sembravano calati dall’alto - per non dire supponenti - è anche vero che nessuna delle loro provocazioni passò mai inosservata: perché innovativa, perché attendibile, ma soprattutto perchè frutto di basi e progettualità solidissime, nate dalla perfetta armonizzazione tra la band e i suoi collaboratori. 

In più, a differenza di molti colleghi che si contraddissero corteggiando il mercato americano, gli Area non commisero mai quell'errore, preferendo piuttosto concentrare la loro attività in Italia, o, al limite, sperimentare le loro potenzialità in nazioni più libertarie: Francia e in quel Portogallo appena fresco di democrazia. Sicuramente perdendoci commercialmente, ma mantenendo illibata la loro coerenza

Anzi, è davvero straordinario appurare come, proprio oltralpe, il loro percorso artistico e politico venne recepito addirittura meglio che da noi, dove spesso era oggetto di attacchi e fraintendimenti. Lo dimostrò ad esempio, la lunga introduzione della presentatrice portoghese al loro live set di Lisbona, la quale tracciò un profilo straordinariamente lucido non solo dei musicisti, ma dell’intera situazione italiana: privilegio che, all'epoca e a livello nostrano, apparteneva solo a pochissime avanguardie intellettuali

Dopo la morte di Demetrio nel giugno del 79, e la successiva agonia del gruppo, nessuno come loro si sarebbe mai più ripresentato sulla scena italiana: da un lato perché si chiuse l’era dei movimenti e mutarono le condizioni politiche, ma soprattutto, poiché venne meno uno dei più solidi collettivi musicali della storia musicale italiana, là dove ogni singola personalità era imprescindibile per la sua esistenza. Ancora oggi un esempio, direi, per chiunque voglia fare della propria musica, una professione.

Alberto Radius: America Good-Bye (1979)

america good-bye
Nel 1979 il rock progressivo era ormai acqua passata, e molti dei suoi interpreti lo avevano da tempo rinnegato per un posto al sole. La PFM incubava il cantereccio Suonare Suonare, Alan Sorrenti deliziava le casalinghe, l'ex Rovescio della Medaglia Michele Zarrillo vinceva Castrocaro, e le Orme, chissà perché, regredivano al XVII° secolo

Gli aromi di un tempo però, erano pur sempre indispensabili per insaporire qualunque nuova produzione. Non a caso Gino Paoli chiamò a raccolta Elio d'Anna degli Osanna, Franco del Prete dei Napoli Centrale e Tony Esposito per il suo inestimabile Ha Tutte Le Carte In regola (omaggio all'amico Piero Ciampi appena scomparso).  

Pino Daniele reclutò Agostino Marangolo dei Flea/Etna, Tony Cicco della Formula Tre, Francesco Boccuzzi del Baricentro, e James Senese dei Napoli Centrale, mentre Paolo Conte registrò Un Gelato Al Limon insieme all'ex Locanda Delle Fate Ezio Vevey, a Renato Mantegna dei Dedalus, a Francone Mussida della Pfm, e al fu Area Patrick Djvas.  

Rino Gaetano intanto si era preso Gaio Chiocchio dei Pierrot Lunaire, e Guccini i Pleasure Machine al gran completo, più Antonio Marangolo dei Flea e Gianfranco Coletta della RAM

Eppure, mentre gli alfieri del pop italiano si accasavano sotto nuovi tetti, anche a costo di rinnegare il loro passato, c'è chi invece mantenne la propria coerenza, e tradusse quel momento di transizione in un album-capolavoro

alberto radius

Parliamo di Alberto Radius che tra una produzione e l'altra trovò il tempo di pubblicare il suo quarto Lp da solista, America Good-Bye, sospeso tra il disincanto per un passato in dissoluzione, e i miraggi sponsorizzati dal nuovo ordine mondiale

Un disco geniale che prese a prestito le incongruenze del mito americano per sbatterci in faccia le nostre, e rivelò una ad una tutte le contraddizioni in una società solo apparentemente sana

Tecnicamente: otto brani firmati dallo stesso chitarrista su testi di Daniele Pace e Oscar Avogadro, qui in particolare stato di grazia.
Arrangiamenti del sopraffino jazzista Sante Palumbo, e ritmica d'eccezione: uno scatenato Tullio De Piscopo in overdose di Synare
Il tutto registrato nel nuovo e fiammante studio di Alberto che di lì a poco avrebbe ospitato Alice, Battiato, Faust'o, Giuni Russo e molti altri. 

E veniamo al disco. 
Attacco fulminante con un omaggio al prog, ed è subito una parata di stelle spente: eroi sconfitti dal loro stesso mito, ma anche da quel potere rancido ben fotografato nella successiva Poliziotto

America GoodbyeÈ poi la volta di California Bll, in assoluto il mio preferito dell'album. Splendido affresco di una California popolata di "uomini e donne belli come nei sogni", dove persino  Dio "verrebbe a morire", ma talmente idealizzata da apparire infine irreale. Anzi, talmente posticcia da trasformare questo brano in una sorta di California dreamin al contrario. E scusate se è poco.  

Stop al primo lato con  Il Buffone, omaggio a Cassius Clay su una cassa ribattuta non particolarmente memorabile, e si riparte con la più grande leggenda metropolitana di Manhattan: i Coccodrilli Bianchi che qui incarnano magistralmente le fobie del vivere urbano in sala yankee, quasi fossero moderni Frankenstein o rifiuti tossici. 

Ed è nuovamente il turno di altri due gioielli Patricia e Giù. Nel primo c'è tutto il dramma delle minoranze latine immigrate nelle metropoli della West Coast, e nel secondo quello dei cosiddetti binge drinkers (gli alcolizzati del fine settimana), fenomeno diffussissimo anche nei nostri weekend degli anni ottanta. 

Chiude in bellezza l'ennesima icona a stelle e strisce: Las Vegas, Città posticcia e icona del gioco d'azzardo in cui si è benvenuti sinché si hanno soldi da spendere. “Fino all'ultimo gettone hai diritto alla moquette”, e dopo 35 minuti si ha la sensazione di aver ascoltato un lavoro eccellente sia musicalmente che per qualità poetica. 

Una riconferma di Alberto insomma dopo l'altrettanto avvincente Carta Straccia, che ci restituisce un Radius perfettamente a suo agio tra il suo passato di rocker progressivo e il suo nuovo ruolo di cantautore. Tanto di cappello infine alla preziosa copertina multistrato di un Luciano Tallarini al top della sua creatività.

Una serata con Francesco Coniglio (1957 - 2023)

Francesco Coniglio
FRANCESCo CONIGLIO - foto: dagospia.com

Francesco ci manca dal 6 luglio 2023, o così ha deciso quel maledetto ictus che se l’è portato via.

Sto parlando naturalmente di Francesco Coniglio, monarca assoluto del fumetto underground italiano, compositore di colonne sonore (per film porno), imponente nel fisico quanto nell’animo, e con qualche piccolo difetto di fabbricazione, come del resto ce l'abbiamo tutti.

I suoi, in particolare, erano due: un controverso rapporto con la contabilità, ma di questo preferirei non parlarne, e un appetito praticamente insaziabile. E non solo per l’impressionante mole di cibo che riusciva ad assumere, quanto per una ghiottoneria congenita che lo portava a cercare sempre ed ovunque i piatti più raffinati. Frank insomma, era un vero gourmet.

Inutile rimarcare quindi, che nel periodo in cui ci siamo frequentati, più o meno quando uscì il mio Gast(r)ocknomìa, parlavamo più di cibo che di musica.
«Ma tu l’hai mai magnato l’uovo più ‘bbono del mondo?», «No, e che roba è?»,
«Poi, senti. Me devi insegnà a fare il risotto alla milanese perché a me proprio nun me riesce…»

Francesco Coniglio, John N.Martin
IO E FRANK, 2018
E allora giù a spiegargli il concetto dell’“onda”, che sostituisce quello di mescolatura (guardate questo video di Blixa Bargeld ai fornelli, per capire come NON si prepara un risotto); che la presenza del midollo ha un senso, e che la mantecatura si può dare sia all’inizio alla che alla fine, anzi, secondo me si dovrebbe.

Usare rigorosamente Riso Carnaroli o Vialone Nano (che però si sfalda più rapidamente, quindi non è indicato per grandi quantità), e servirlo aperto su un piatto largo.
Ma la cosa magica è che, mentre parlvo, lui mi osservava attentissimo, non si lasciava sfuggire neanche un dettaglio, quasi come fossi stato Marchesi in persona. 

Chissà se poi ci ha mai provato, a fare quel cazzo di risotto... Spero gli sia riuscito benissimo. Meglio di tutti i miei messi insieme.

Comunque, ciò che ci rese Francesco indimenticabile, fu il massacro di Forte Apache, anzi, dell’Aventino, quando una sera di luglio, invitò me e Marina al Flavio Al Velavevodetto, zona Testaccio, cucina laziale.

Era la prima volta che lo incontravamo, non sapevamo neppure che aspetto avesse, ma la sera prima il nostro amico Franco Brizi, che nel frattempo stava esponendo in uno stand sul Lungotevere, ci aveva garantito che lo avremmo riconosciuto senza problemi. E difatti non ci volle molto. Era una montagna.

Le portate, naturalmente, lasciammo sceglierle a lui (precisando timidamente che di solito noi a cena non mangiavamo “moltissimo”), ma quando, Frank iniziò ad ordinare gli antipasti, capimmo subito che quella sera sarebbe stata un’eccezione.

John N. Martin, Francesco Coniglio, Michele Neri
IO, FRANK e MICHELE NERI, 2019
Due colossali piatti di polpette carne/verdura, (colossali per noi, s’intende) un piatto di fiori di zucchina fritti che erano a dir poco squisiti, e praticamente un assaggio di tutti i primi che c’erano (gricia, carbonara, matriciana, cacio e pepe).  

 Manco a dirlo, Frankie finì di buon gusto quello che noi (per quantità, no per qualità) non eravamo riusciti a mangiare, e poi, ovviamente…
   «... e di secondo che se magna?».
«Di secondo???» «Frank scusa... ti va di fare una pausa?».

Credo sarebbe stato criminale, nonché offensivo fermarsi al primo. L’unico problema che, se lui aveva ancora una fame boia, noi eravamo già sazi. Ma ad un certo punto chissenefrega. Non ne capitano tante di serate così. 

Ottima cucina, ottima compagnia, e dopo la faidica mezz’oretta ci gustammo un’insalata mista con pomodorini (Marina) un involtino al sugo (io, era una cosa spaziale), e credo una trippa alla romana (lui).  
Caffè, ammazzacaffè, e ci lasciammo nella magica notte romana che, in quel particolare periodo dell’anno, è davvero incomparabile.

E questo è il mio ricordo di Francesco Coniglio. Persona di grande sensibilità umana e intellettuale, curiosa, intraprendente, ma la cui temperie forse gli impedì di limitarsi in certe situazioni, e gestirne altre.

«Uno dei personaggi più divisivi dell’editoria italiana. O lo amavi o lo odiavi.», mi disse una volta un caro collega saggista, e credo avesse ragione.

Io, almeno, non ho avuto tempo di odiarlo.

Buon viaggio Frank.

JACULA: chi era FIAMMA, la "vampiressa dal viso d'angelo"? - 1a parte

fiamma rock progressibo italianoSul rock progressivo italiano è stato detto e scritto ormai di tutto. 
Tuttavia, trattandosi di un genere di nicchia e spesso alimentato dal passaparola, non c’è da stupirsi se, ancora oggi, emergano nuove testimonianze ad arricchirne la storia. 

Per esempio, poco si è parlato in questi anni di Vittoria Lo Turco, classe 1937, in arte Fiamma: giovane e bellissima cantante genovese che, nei primi anni Settanta, alcuni giornali annoverarono - a torto o a ragione -  negli Jacula insieme ad Antonio Bartoccetti, Charles Tiring e Franz Parthenzy, e che quindi potrebbe corrispondere a quella Fiamma dello Spirito, che comparve nei credits dell’album Tardo Pede In Magiam Versus pubblicato nel 1972. 

Personalmente, ho sempre associato lo pseudonimo "Fiamma dello Spirito" a Doris Norton, compagna del band-leader Antonio Bartoccetti, ma non solo io: è scritto in qualunque testo di prog italiano (incluso il mio e di Michele Neri), lo hanno affermato colleghi ben più autorevoli di me, ed è una tesi tuttora condivisa. 

Eppure, alcuni documenti d'archivio recentemente rinvenuti (prevalentemente ritagli di giornale tra il 72 e il 76, quindi materiale di dominio pubblico e ancora reperibile nelle relative emeroteche), attribuiscono proprio a Fiamma il ruolo di cantante del gruppo.

Certo, osserverà qualcuno, per fugare ogni dubbio sarebbe sufficiente leggere la recente biografia del gruppo, “Magister Dixit” per la Tsunami Edizioni, ma io non l’ho ancora fatto. Quindi, lascio a voi trarre le conclusioni, e mi limito ad offrirvi l'opportunità di fare un altro tuffo nel passato, e di respirare ancora un po' dell'atmosfera di quegli anni “magici”. Aggettivo che, in questo caso, mi sembra più che azzeccato. 
E ora veniamo al dunque.

jacula 1972
 In un articolo del quotidiano La Notte di sabato 16 dicembre 1972, intitolato “I quattro ragazzi del complesso Jacula scrivono musiche dettate dagli spiriti”, il/la giornalista c.g.z. (si firma solo con le iniziali) presenta il gruppo così: “due ragazzi italiani e due inglesi, Charles Tiring, organista e pluristrumentista, Anthony Bartoccetti, compositore, poeta, chitarrista e cervello del complesso, Franz Partenzy, famoso medium inglese” e, guarda un po’, “la vampiressa Jacula, identificabile nella cantante Fiamma” la quale, nella didascalia della sua foto a destra del testo, viene testualmente definita come: “La vampiressa Jacula, in arte Fiamma, all’anagrafe Vittoria Lo Turco. É genovese, ed è nata musicalmente al Festival del Luna Park di Monza nel 1968. Nonostante l’aspetto sorridente ed innocuo, il suo pane è la magia. Pane che consuma con gli spiriti sul piano dei tavolini a tre gambe”. 

Un secondo trafiletto non denominato né datato (lo stile sembra essere quello del Corriere della Sera), rimanda invece ad un altro articolo del torinese Stampa Sera in cui si collegano Franz Gartenzy (!), l’inglese Charles Tiring, organista e pluristrumentista, originario della Cornovaglia, e l’italiano Anthony Bartoccetti compositore, poeta, chitarrista e “lead” del complesso, ad una “cantante, attrice di cabaret, presentatrice e così via: Fiamma [...] Una graziosa bionda genovese che in questi giorni si sta imponendo nel campo della musica leggera per le sue canzoni. É la cantante del complesso Jacula”. 

Da una pagina del Corriere Mercantile di Genova, anch’essa purtroppo senza dati cronologici, apprendiamo ancora che “Fiamma, una cantante genovese che sta sfondando sulla piazza di Milano, fa parte del complesso Jacula, frutto dell’unione di due italiani e due inglesi”. Si legge poi che “la musica, di origine magica e vampiresca, è arrangiata dal maestro Federico Bergamini, un altro genovese. [...] Clavicembalo, moog, e flauto riproducono i suoni captati dal medium inglese Franz Partenzy durante le sedute spiritiche”.  

Bergamini, per inciso, fu coautore con Bartoccetti di U.F. D.E.M. (Uomo fallito dell'era moderna), brano d'apertura di Tardo Pede. 

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Juri Camisasca: La finestra dentro (1974)

juri camisasca la finestra dentro 1974Nel 1974, parallelamente alla frammentazione del Rock Progressivo, si stava affermando in Italia un nuovo genere cantautorale, volto a superare, per impegno e per stile, quello della generazione precedente: l'analisi prendeva il posto della spensieratezza e il "personale" cedeva il posto al politico. Non siamo ancora ai livelli di un Finardi, ma ormai la strada è tracciata: di lì a poco la forma-canzone diventerà lo strumento rivendicativo che prenderà il posto del Pop.
 

Prima della metà degli anni '70 però, c'era ancora spazio per quel genere di sperimentazione autorale ancora legata al Prog che, pur se confinata ad una ristretta cerchia di estimatori, produsse lavori di una forza straordinaria: per esempio quello di un ventireenne di Melegnano (MI) di nome Roberto Camisasca, in arte "Juri".Musicista per vocazione, Camisasca conobbe Franco Battiato durante il servizio militare.
 

Tra i due nacque subito non solo un profondo rapporto di amicizia e una sodalità artistica che porterà Juri a collaborare col del Maestro siciliano, ma anche un rapporto inverso che farà di Battiato il suo primo padrino artistico.Di fatto, dopo un'audizione presso la Bla Bla di Pino Massara (all'epoca discografica dello stesso Battiato) che lasciò impressionati un po' tutti, il cantautore milanese ricevette carta bianca per l'incisione del suo primo trentatrè giri: "La finestra dentro".juri camisasca 02 
Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, l'anno 1974 fu per il Pop Italiano un periodo di transizione a fronte dei violenti scossoni politici che si stavano verificando all'interno della galassia giovanile: c'è chi come gli Area e i Dedalus ne sottolinearono la drammaticità e chi, come ad esempio lo storico gruppo dei Delirium, dovette ritirarsi per una sostanziale incapacità di adattamento ai nuovi linguaggi.In questo contesto, l'album di Juri Camisasca, pur essendo di stampo marcatamente autorale, riuscì a porsi esattamente nel luogo mediano delle trasformazioni in corso, dando vita così aun lavoro perfettamente centrato tra passato e futuro: un fulgido ritratto di quella tensione diffusa che di lì a poco avrebbe pervaso il mondo giovanile, tratteggiato però con uno stile saldamente radicato nel Prog, se non addirittura antecedente. 

Si immagini in sintesi, una vocalità sospesa tra la timbrica di Fabio Celi e le serpentine melodiche di Alan Sorrenti; una freddezza lirica degna di Alvaro Fella e una base sonora minimalista partorita da due geni quali Lino Vaccina e lo stesso Battiato.La risultante di quanto detto è evidente all'ascolto: angoscia e disincanto si mischiano ad una vocalità timida ma irruenta, mentre certi testi sembrano anticipare di due anni l'avvento del Punk.

Nel mio corpo ci sono delle fognature: tutti quanti le chiamano vene ma dentro ci sono dei topi che corrono […]
Io mi gratto continuamente […]ma io non cedo, io sarò sempre un galantuomo sino alla morte. […]
Però quei topi mi danno un gran fastidio […]

Ora mi decido: prendo un martello me lo picchio sulla testa ed ecco che i topi mi escono dal naso.
juri camisasca 03 

Le costruzioni armoniche sono scarne ma mai strettamente cantautorali e il groove si dipana in un bilanciarsi di "pieni e vuoti dinamici" che non concedono flessioni percettive
Ci sono i momenti di reale intimismo ("Ho un grande vuoto nella testa" "John"), citazioni Kafkiane ("Metamorfosi") e grandi abbracci mistici che sembrano preludere alla conversione religiosa dell'autore ("Il regno dell'Eden").
 

Spinto fino ai limiti dell'espressività melodica, "La finestra dentro" è diventato col tempo un album di culto, ma non solo per il suo valore collezionistico, quanto perché, malgrado la apparente schizofrenia delle musiche e dell'autore, riuscì a restituire in modo unico le angosce del suo tempo. E lo fece in un maniera così intima e distaccata, che neppure un astronauta dalla luna avrebbe potuto fare di meglio. E quell'astronauta era lo stesso Juri che, come un alieno in gita, arrivò sulla terra, lasciò un segnale e se ne andò subito dopo.
 

Non a caso, malgrado le eccellenti critiche ricevute che avrebbero potuto preludere a un sequel del primo disco, Camisaca non proseguì la sua carriera atrtistica ritirandosi in convento per dieci anni e rimanendo successivamente sempre fedele alla sua intimità artistica e spirituale.
Dissero di lui: "la particolarità fatta arte".

... con Garbo

JJ e GARBO - Gennaio 2020
...ok, non sarà un artista prog, 
ma è un mito lo stesso.